Il sovrasfruttamento dei mari riguarda l’eccessivo prelievo di risorse ittiche, superando la capacità di riproduzione degli stock. Questo ovviamente porta ad un impoverimento degli ecosistemi marini, con conseguenze negative sia per la biodiversità che per le comunità.
Il sovrasfruttamento dei mari aumenta del 39,1% ogni anno: resta in buone condizioni l’Atlantico centro-orientale, mentre vanno peggiorando il Mediterraneo e il Pacifico a sud-est.
I sistemi alimentari acquatici svolgono un ruolo cruciale nel fornire a miliardi di persone proteine e nutrienti essenziali, mezzi di sussistenza e altri servizi, aiutando la società a superare la fame, la malnutrizione e la povertà. Per mantenere intatte le loro capacità, è necessario cambiare produzione, trasformazione, commercio e consumo del cibo attraverso azioni trasformative nella pesca e nell’acquacoltura.
Dati recenti dimostrano che il 64,5% degli stock marini è trattato in maniera sostenibile, il 35,5% è troppo pescato. Tuttavia, dietro questi numeri si nascondono profonde disparità geografiche.
Il Mar Mediterraneo, ad esempio, è uno degli ecosistemi più colpiti: secondo la FAO, oltre il 75% degli stock ittici presenti è sovrasfruttato. Questo ha conseguenze dirette sulle economie locali, in particolare sulla piccola pesca artigianale, che fatica sempre di più a competere con le grandi flotte industriali.
La perdita di biodiversità marina incide anche sugli equilibri ecologici: specie predatrici come tonni, squali e merluzzi sono in forte calo, e la pesca si è spostata sempre più verso specie di taglia ridotta o di livello trofico inferiore. Questo squilibrio indebolisce l’intera catena alimentare marina, rendendola più vulnerabile a cambiamenti climatici e pressioni antropiche.
A contribuire al problema vi sono pratiche di pesca distruttive come lo strascico, che non solo cattura indiscriminatamente anche specie non bersaglio (bycatch), ma danneggia gravemente i fondali marini, compromettendone la capacità rigenerativa. Inoltre, le attività illegali, non dichiarate e non regolamentate rappresentano circa il 20% del pescato globale, secondo recenti stime dell’ONU.
Per invertire questa tendenza, è fondamentale puntare su una gestione basata su dati scientifici, sostenere l’espansione delle aree marine protette e incentivare pratiche di pesca selettive e a basso impatto ambientale. L’acquacoltura può rappresentare una valida alternativa, a patto che sia sviluppata in modo sostenibile, senza aggravare ulteriormente la pressione sugli ecosistemi marini attraverso l’uso di mangimi a base di pesce selvatico.
In definitiva, garantire la salute degli oceani non è solo una questione ambientale, ma anche sociale ed economica. Senza una trasformazione profonda dei nostri modelli produttivi e di consumo, i mari non riusciranno più a sostenere la vita, né la nostra, né quella delle generazioni future.